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Apr 2019Chi di noi, prima di una vacanza, non ha consultato qualche piattaforma online (tripadvisor, booking e simili) per prenotare un albergo o un ristorante o anche semplicemente per verificare quale ne sia il gradimento da parte degli utenti?
Molti di noi, probabilmente, hanno anche contribuito personalmente alla valutazione di qualche struttura.
Accade talvolta di leggere anche recensioni non solo negative ma piuttosto sprezzanti e sgradevoli, accompagnate magari dal consiglio di evitare quella struttura: si tratta, sicuramente, di qualche cliente insoddisfatto che ha consumato una piccola vendetta.
Queste pubbliche critiche sono lecite e quanto possono essere “feroci”?
Pubblicare una recensione negativa, evidenziando i difetti dei servizi offerti da un locale, è un’attività di per sé lecita, che rientra nella libertà di manifestare il proprio pensiero.
È difficile, tuttavia, individuare con certezza quale sia il confine tra diritto di critica e il reato di diffamazione.
Ricordiamo che la critica non è una cronaca e non è, dunque, una mera ed oggettiva esposizione dei fatti: la critica trae spunto da un fatto, ma implica necessariamente la manifestazione di un’opinione, che non si può pretendere sia asettica e oggettiva.
“Il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi” (così Cass. Pen. 36045/2014).
La giurisprudenza individua come paletti proprio l’esistenza del fatto criticato (non si può costruire una critica sulla base di fatti inventati) e la continenza verbale (l’utilizzo di forme ed espressioni che non siano inutilmente aggressive o offensive per la dignità di una persona).
Una cosa è scrivere che un ristorante è carissimo e ben altra cosa è scrivere che il ristoratore è un ladro.
Esaminando il caso di un signore che, sul proprio profilo Facebook, all’interno di una pagina intitolata “I peggiori ristoranti di (OMISSIS) e dintorni”, aveva denunciato i prezzi esosi di un ristorante locale accusando il gestore anche di “truffare” sul peso dei cibi, la Corte di Cassazione ha ribadito che “l’esercizio del diritto di critica trova un limite immanente nel rispetto della dignità altrui, non potendo lo stesso costituire mera occasione per gratuiti attacchi alla persona ed arbitrarie aggressioni al suo patrimonio morale” (Cass. Pen. 23.01.2019 n. 3148).
Nel caso in questione, la Corte d’Appello aveva condannato l’imputato per diffamazione assumendo che una critica, per essere legittima, presuppone una manifestazione del pensiero argomentata e fondata su elementi concreti, così da lasciare al pubblico dei lettori la possibilità di apprezzare il fatto, mentre l’imputato avrebbe additato apoditticamente il ristoratore come un truffatore.
La Cassazione, invece, sottolinea come gli oneri informativi a carico di un soggetto che pubblica un post su un social network siano ben diversi da quelli gravanti su di un giornalista professionista, che ha un ruolo, una formazione, delle capacità espressive e uno spazio divulgativo ben diverso da quello dell’utente privato che si “vendica” su un social.
Nella sentenza in commento, dunque, la Suprema Corte ha escluso la diffamazione, riconoscendo la scriminante del diritto di critica in quanto il fatto che il ristorante censurato fosse caro corrispondeva al vero e il termine “truffatore”, riferito al titolare dell’attività, andava ricondotto ai prezzi esorbitanti e ai dubbi sulla corrispondenza tra peso e prezzo pagato. Secondo la Corte, si era trattato di una critica e non di un giudizio sull’etica dell’imprenditore.
“Il linguaggio, figurato e gergale, nonché i toni, aspri e polemici, utilizzati dall’agente sono funzionali alla critica perseguita, senza trasmodare nella immotivata aggressione ad hominem. Il requisito della continenza non può ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo del quale occorre tenere conto anche alla luce del contesto complessivo e del profilo soggettivo del dichiarante” (Cass. Pen. n. 42570/2018).
Attenzione, tuttavia, a non intendere la sentenza in commento come una sorta di lasciapassare per qualsiasi sfogo su Internet: non sono un giornalista ma un semplice utente privato e posso scrivere qualsiasi cosa.
Il passaparola, in fondo, è sempre esistito e il gestore di un pubblico esercizio è da sempre consapevole della possibilità che i suoi clienti, se insoddisfatti, diffondano la voce: con ogni mezzo e, oggi, anche con un post o una recensione online.
Non è proprio così.
In realtà, nel caso in esame, la Suprema Corte è stata piuttosto “indulgente” nei confronti del cliente censore (dalla sentenza, tra l’altro, non è perfettamente chiaro quale fosse il contenuto testuale del post incriminato).
La cronaca ci conferma che più di un internauta si è visto notificare un decreto penale di condanna per i contenuti diffamatori di un post pubblicato su un social network.
Prudenza, dunque. Controlliamo la nostra vis polemica ed evitiamo di colorire le nostre recensioni con particolari inventati: una recensione negativa su internet può essere anche pungente, ma non deve mai sfociare nell’aggressione gratuita alla dignità di una persona e tanto meno nell’attribuzione di fatti non veri.