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Mar 2017Le ultime elezioni presidenziali americane hanno acceso nuovamente i riflettori sul tema delle false notizie e dei pericoli connessi ad una informazione che, in assenza di filtri e intermediazioni, priva i cittadini di ogni garanzia circa la veridicità di quanto pubblicato.
Sul banco degli imputati sono finiti soprattutto Google e Facebook, accusati di non aver fatto nulla per limitare la diffusione delle c.d. fake news sulle proprie piattaforme e che hanno già preannunciato degli interventi per risolvere il problema.
Google ha già preso alcune contromisure come il blocco della pubblicità ai siti che diffondono false informazioni e l’introduzione, da fine febbraio, in Francia e USA di una forma di controllo incrociato delle notizie (cross check) in collaborazione con i principali quotidiani, reti televisive e agenzie di stampa; è, inoltre, in preparazione un sito per segnalare informazioni sospette e chiedere chiarimenti.
Sulla stessa linea anche Facebook che ha messo a punto un algoritmo che individua le notizie più condivise (si è osservato che gli articoli con false informazioni, suscitando maggior clamore, sono generalmente più letti di quelli veritieri) abbinato ad un dispositivo di fact-checking già testato negli USA, introdotto a gennaio in Germania e da febbraio anche in Francia. Gli utenti possono segnalare le notizie false; gli articoli segnalati vengono inviati ad organismi esterni di fact-checking che possono contrassegnare la news contestata come “dubbia” o meno, evitando che le notizie contestate vengano condivise.
In altre parole, verrebbe introdotto una sorta di filtro editoriale regolato da organizzazioni terze.
Secondo il Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza italiana, Giovanni Pitruzzella, invece, la lotta contro la diffusione di “bufale” sul web risulterebbe più efficace se, anziché delegata ai singoli social media come Google e Facebook, venisse svolta da una rete di agenzie pubbliche indipendenti (modellate sul sistema delle agenzie antitrust), coordinate a livello europeo e che potrebbero rilevare le false notizie, imporne la rimozione e, dove necessario, sanzionare chi le ha diffuse.
La proposta ha suscitato reazioni diverse: alcuni hanno gridato alla censura o, persino, ad una sorta di “inquisizione”.
C’è chi pensa, invece, ad un intervento normativo. Il 15 febbraio scorso, è stata depositata in Senato una proposta di legge che prevede multe fino a 10 mila euro e la reclusione fino a due anni per chiunque pubblichi o diffonda in Internet (ma non su testate giornalistiche) “notizie false, esagerate o tendenziose” o si renda responsabile di “campagne d’odio”. Il problema sarà quello di capire cosa si possa considerare “tendenzioso” o “esagerato”.
Anche in Germania, forse per il timore di vedere inquinato il dibattito elettorale delle prossime elezioni di settembre, si è ipotizzato un intervento legislativo con una sanzione da 500 mila euro per le piattaforme su cui circolino delle bufale.
Il tema della verità dell’informazione, certo, non nasce con i social network ma è antico quanto il mondo.
Le “bufale” non sono un’esclusiva del web ma trovano spazio anche nella stampa tradizionale e cartacea.
Oggi sentiamo parlare sempre più spesso di “post-verità” (adattamento dell’inglese post-truth) dove il prefisso post sembra assumere il significato di “oltre” invece del consueto ”dopo”: in altre parole, l’espressione sottolinea il superamento della verità fino al punto di diventare quasi irrilevante.
La post-verità, infatti, viene per lo più identificata con quelle notizie completamente false che vengono invece spacciate per vere e che sono in grado di condizionare una parte dell’opinione pubblica, in un contesto nel quale oramai la verità di una notizia sembra quasi rappresentare una questione di secondaria importanza (post): il pubblico percepisce come vera la notizia basandosi sulle proprie emozioni e sensazioni, senza interrogarsi sulla sua veridicità.
Non a caso, diverse ricerche hanno dimostrato che gli internauti condividono soprattutto le informazioni che suscitano una più forte reazione emotiva, senza preoccuparsi di verificare se siano vere.
Il problema è che, sempre più spesso, i media (anche quelli tradizionali) cercano di “cavalcare” le emozioni del pubblico, scegliendo e diffondendo delle notizie “ad effetto”, senza preoccuparsi (più di tanto) di verificarne prima l’attendibilità.
Al contrario di quanto accade nei media tradizionali (dove l’identità di chi diffonde una notizia o esprime un’opinione è nota o, comunque, conoscibile), nel caso dei social network, il rischio della disinformazione è ulteriormente aggravato dal sentimento di irresponsabilità, vera o percepita, che accompagna gli utenti del web.
In un prossimo articolo cercheremo di esaminare alcuni dei rischi cui si espone, più o meno consapevolmente, un cibernauta.