9

Feb 2017

L’installazione di telecamere nei luoghi di lavoro pubblici e privati è sempre più frequente ma spesso le imprese non sono pienamente consapevoli delle sanzioni previste qualora l’installazione avvenga al di fuori delle procedure autorizzatorie prescritte dall’art. 4 L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori).

Ricordiamo che, ai sensi dell’art 171 D.Lgs 196/2003 (Codice Privacy) come modificato dal D.Lgs. 151/2015, la violazione dell’art. 4 L. 300/1970 è punita con le sanzioni previste dall’art. 38 L. 300/1970 (la pena alternativa dell’ammenda o dell’arresto).

L’art. 4 cit. è stato modificato dal D.Lgs. 151/2015 (decreto attuativo di una delle deleghe del Jobs Act) che ha espressamente previsto le “esigenze di tutela del patrimonio aziendale” tra le ipotesi in cui è ammessa l’installazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti che consentano il controllo a distanza dei lavoratori: anche in tali casi, tuttavia, l’installazione dei sistemi di controllo è possibile solo previo accordo collettivo con la rappresentanza sindacale unitaria o con le rappresentanze sindacali aziendali o, nel caso di mancato accordo, previa autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

Tali principi sono stati ribaditi in due recenti sentenze in cui la Cassazione penale, esaminando dei casi di violazione del divieto di controllo di cui all’art. 4 L.300/1970, ha evidenziato che con  la modifica introdotta dal Jobs Act “è solo apparentemente venuto meno il divieto esplicito di controlli a distanza: in realtà, la nuova formulazione ha semplicemente  “adeguato l’impianto normativo alle sopravvenute innovazioni tecnologiche”, mantenendo comunque fermo il divieto di controllare la prestazione lavorativa dei dipendenti.

In un primo caso (Cass.51897/2016), la Suprema Corte ha confermato la condanna alla pena di € 400,00 di ammenda del legale rappresentante di un’impresa di distribuzione di carburante per aver consentito, tollerato e non impedito (nella vicenda in esame, il gestore dell’impianto era di fatto il marito della legale rappresentante) l’installazione nel piazzale di sei telecamere collocate nelle vicinanze delle pompe di erogazione del carburante  e che consentivano il controllo della dipendente addetta alle pompe: pur potendo invocare delle “esigenze di tutela del patrimonio aziendale”, l’installazione era avvenuta in assenza di accordo sindacale o dell’autorizzazione dell’allora DTL. Nella seconda vicenda (Cass.45198/2016), è stata confermata la condanna alla pena di € 1.000,00 di ammenda per le due amministratrici di un night club per avere installato e posto in funzione telecamere che riprendevano le casse e l’interno del locale, consentendo così il controllo del lavoro dei dipendenti: l’installazione per “finalità difensive” (di prevenzione di illeciti da parte dei dipendenti) rimane soggetta alle procedure autorizzatorie di cui al primo comma dell’art. 4 Statuto dei Lavoratori, procedure che il Jobs Act non ha abrogato

È importante tenere presente, come ricorda anche la Corte, che per la configurazione del reato è sufficiente la mera predisposizione delle telecamere e la loro idoneità al controllo a distanza dei lavoratori, in quanto per la punibilità non sono richiesti la messa in funzione e/o il loro concreto utilizzo.

Se le telecamere installate non comportano alcun controllo a distanza del dipendente, viceversa, per la loro attivazione non è necessario l’accordo stipulato con la rappresentanza sindacale o l’autorizzazione alla DTL.

Questo il principio affermato dalla Cassazione Civile nella sentenza n.22662/2016 che ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato ad una dipendente che aveva sottratto una busta contenente denaro dalla cassaforte aziendale, sfilandola dalla fessura con un tagliacarte e la cui condotta era ricavabile da un filmato prodotto da una telecamera di controllo della cassaforte. Nel caso in esame, dunque, la condotta della lavoratrice oggetto della ripresa video non solo non atteneva alla prestazione lavorativa ma non differiva in alcun modo da quella illecita posta in essere da un qualsiasi soggetto estraneo all’organizzazione del lavoro: si trattava un sistema di c.d. controllo difensivo che non era diretto a verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni lavorative ma a tutelare il patrimonio aziendale e/o ad impedire la perpetrazione di comportamenti illeciti. I giudici di legittimità hanno affermato che non sono soggetti alla disciplina dell’art. 4, comma 2, Statuto dei Lavoratori i controlli difensivi dai quali “non derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività lavorativa e non risulti in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori“.