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Ott 2024

Tre gradi di giudizio e quasi vent’anni di causa non sono stati sufficienti per dirimere una lite tra vicini sulla presenza e sulle modalità di utilizzo di un caminetto – barbecue costruito in giardino, le cui esalazioni si propagano al fondo del vicino.

L’attore sostiene -tra l’altro- che trattasi di costruzione che dovrebbe rispettare le distanze legali.

Il Tribunale sul punto gli dà torto, rilevando come il regolamento edilizio comunale non consideri il caminetto una costruzione.

La Corte d’Appello viene investita della relativa questione di diritto, mentre sul fatto il Tribunale aveva già dato atto di come “le parti siano state concordi in ordine alla descrizione dello stato dei luoghi” e di come sia “incontroverso, quindi, che i convenuti abbiano realizzato nel proprio giardino un caminetto-barbecue esterno, con base di dimensione cm. 130 x 101, dotato di due canne fumarie, alla stessa quota”, etc… Era stata svolta altresì una consulenza tecnica d’ufficio “onde verificare lo stato dei luoghi“.

La Corte d’Appello risolve la questione di diritto negli stessi termini del Tribunale.

Ma la Suprema Corte (Cassazione civile sez. II, 26-06-2024, n.17561) -diciasette anni dopo- cassa con rinvio alla Corte d’Appello, dichiarando che essa “da tempo, con giurisprudenza consolidata, afferma che, in tema di distanze legali, esiste, ai sensi dell’art. 873 c.c., una nozione unica di costruzione, consistente in qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo, indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata. I regolamenti comunali, pertanto, essendo norme secondarie, non possono modificare tale nozione codicistica, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, poichè il rinvio contenuto nella seconda parte dell’art. 873 c.c. ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore”.

Dice anche che la “Corte di Venezia, essendosi limitata a escludere la natura di costruzione al manufatto esclusivamente sulla scorta della norma locale secondaria, si pone in contrasto con i principi sopra riportati, non avendo verificato se l’opera, senza che possa assumere rilievo la nozione adottata dall’ente locale, debba o meno essere ricompresa nella species “costruzione”, richiamata dall’art. 873 cod. civ., secondo i principi elaborati in sede di legittimità“.

Ancora una volta, dunque, un giudizio d’appello inutile, visto che la questione da dirimere era solo di puro diritto.

Ne avevamo già parlato ne “Il parcheggio (in)custodito e i tre gradi di giudizio”, stimando anche i costi di tale inutile duplicazione e ipotizzando i benefici della sua eliminazione, con un accorpamento di risorse umane e materiali in un unico grado di merito, svolto con accuratezza e completezza.

Il legislatore ha coscienza del problema e ha fatto un primo passo con l’introduzione del rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c., col quale mira ad anticipare l’attività nomofilattica della Corte di Cassazione.

La norma si applica ai giudizi instaurati a partire dal 1.1.2023 e se ne possono già apprezzare i primi effetti: ha dichiarata ammissibile la proposizione di ricorso congiunto di separazione e divorzio su domanda cumulativa dei coniugi (Cassazione civile sez. I, 16-10-2023, n.28727), ha stabilito che la carta docente spetta anche ai docenti non di ruolo e che la relativa azione di adempimento in forma specifica si prescrive in cinque anni (Cassazione civile sez. lav., 27-10-2023, n.29961), ha chiarito l’ambito di operatività del privilegio fondiario (Cassazione civile sez. I, 19-08-2024, n.22914), tutte questioni che -senza questo strumento- sarebbero finite in Cassazione dopo molti anni.

Inoltre la Cassazione lo ha considerato ammissibile anche laddove sarebbe stato esperibile il regolamento di competenza, nei giudizi definibili con provvedimenti non ricorribili in Cassazione o cautelari (anche ante causam) e nei giudizi tributari; non lo ha ritenuto nullo o inammissibile nel caso in cui il giudice rimettente avesse omesso di sentire previamente le parti, spostando in sede di legittimità il relativo contraddittorio.

Nonostante tale favore, il rinvio rimane pur sempre uno strumento ad applicazione limitata, e la stessa Cassazione -forse temendo un suo eccessivo utilizzo- ha già messo le mani avanti, dicendo che “il rinvio pregiudiziale presuppone una difficoltà nell’interpretazione di una disposizione nuova o sulla quale non si sia ancora formato un univoco indirizzo giurisprudenziale, destinata ad essere applicata in numerosi giudizi, e tende a realizzare una sorta di nomofilachia preventiva, sollecitando la S.C. ad enunciare con sentenza un principio di diritto vincolante non solo per il giudice che ha sollevato la questione, ma anche per ogni altro giudice chiamato ad intervenire nell’ambito del medesimo procedimento“.

In ogni caso, meglio di niente.

L’altro fronte sul quale si dovrebbe agire è quello delle norme sostanziali: successioni, diritti reali e obbligazioni necessitano da tempo di un ripensamento di quei nodi che, costringendo al ricorso giudiziale per il loro scioglimento, impediscono l’effettivo esercizio dei relativi diritti.

Ma questa è un’altra questione, che merita separate riflessioni: come ben sanno i protagonisti della vicenda, infatti, non va messa troppa carne al fuoco tutta insieme.