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Ott 2017Anche un semplice “mi piace” cliccato su un post Facebook potrebbe configurare il reato di diffamazione aggravata.
La cronaca ci dimostra, ogni giorno di più, quanti siano i rischi e le insidie cui si espone, spesso inconsapevolmente, l’utente di Facebook.
Abbiamo già visto come la diffusione di un messaggio di contenuto offensivo attraverso l’uso di una bacheca Facebook possa integrare il reato di diffamazione aggravata (Il falso mito dell’irresponsabilità per quanto si scrive sul web ).
Vi siete mai chiesti se possa essere considerato diffamatorio anche il semplice “like” cliccato accanto ad un post offensivo?
“Like” significa “mi piace” e serve ad esprimere il proprio consenso, la propria condivisione rispetto ai contenuti del post che stiamo leggendo: un gesto molto semplice, apparentemente banale e che molti compiono in modo quasi automatico.
Sarebbe, invece, opportuno riflettere prima di dichiarare apertamente che condividiamo i contenuti di un post diffamatorio.
Recente è la notizia del rinvio a giudizio di sette persone per diffamazione aggravata: la condotta che viene loro contestata è proprio l’aver cliccato un “like” su un post comparso su Facebook, poste nel quale si commentava, in termini ritenuti offensivi, l’operato del sindaco di un comune del brindisino e di alcuni dipendenti comunali, accusati di assenteismo e di essere dei fannulloni. La Procura di Brindisi ha ritenuto che si configuri il reato di diffamazione aggravata non solo a carico dell’autore del post ma anche di quei lettori ed amici che avevano cliccato il “mi piace”.
In Italia, per il vero, non manca qualche precedente analogo.
La Procura di Genova, ad esempio, aveva chiesto il rinvio a giudizio di alcune persone che avevano cliccato un “mi piace” su un post contro i rom: in quel caso, non si era contestata la diffamazione ma la violazione della legge Mancino sull’incitamento all’odio razziale.
Anche la Procura della Repubblica di Parma, in passato, aveva chiesto il rinvio a giudizio per concorso in diffamazione aggravata nei confronti di un uomo che, leggendo una disputa via social tra due signore, aveva deciso di “schierarsi”, cliccando il proprio “mi piace” accanto al messaggio con cui una delle donne rivolgeva frasi offensive e riferimenti espliciti all’identità della rivale e del figlio.
In tutti i casi, la polizia postale era risalita non solo all’identità di chi aveva scritto il messaggio sulla pagina Facebook, ma anche all’identità di chi aveva semplicemente apprezzato, con un “like”, quel post.
Poco lontano da noi, in Svizzera, si è già arrivati anche ad una prima condanna: il Tribunale distrettuale di Zurigo ha condannato un uomo che aveva commentato con dei “like”, inserendo anche dei rimandi verso contributi di altre persone con commenti analoghi, una pagina Facebook ritenuta diffamatoria e minacciosa, in quanto conteneva appellativi come «antisemita», «razzista» e «fascista» contro Erwin Kessler e contro la sua Associazione contro le fabbriche d’animali (Vgt).
La nostra Polizia Postale esamina ogni giorno tra le 100 e le 200 denunce per offese su Facebook: se si affermasse il principio che anche un “like” può integrare una diffamazione, le denunce si moltiplicherebbero e diventerebbe probabilmente difficile capire fino a dove può spingersi la libertà di espressione e di opinione di ciascuno.
Per capire le dimensioni del fenomeno ma anche la difficoltà di distinguere tra la condotta penalmente rilevante e il semplice cattivo gusto di chi plaude alle offese scritte da altri, basti pensare che – qualche anno fa- la Procura di Genova ha ritenuto necessario stilare addirittura un vademecum per le indagini anti-terrorismo ai tempi dei social.
In quella sorta di protocollo, la Procura aveva spiegato che un semplice “like” su Facebook o una stellina su Twitter o un retweet accanto a frasi inneggianti alla guerra santa, all’Isis o agli attentati, non può bastare per l’invio di un avviso di garanzia ma il nome degli autori di quegli apprezzamenti dev’essere trasmesso alla Digos e ai Ros per ulteriori accertamenti su eventuali precedenti, segnalando alla magistratura i casi più gravi.
Insomma, un vero e proprio vademecum per filtrare le centinaia di segnalazioni che possono giungere ad una Procura e per cercare di stabilire un criterio di pericolosità.
In conclusione, è difficile stabilire a priori cosa sia lecito e cosa non lo sia: ci troviamo nel campo delle valutazioni soggettive, rimesse alla sensibilità dei singoli.
Nel dubbio, in ogni caso, conviene cliccare un “like” in meno piuttosto che un “like” di troppo.