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Mar 2020L’epidemia di Coronavirus sta obbligando a ripensare il lavoro, ma più in generale, l’economia secondo nuovi schemi, sempre più improntati alla homebody economy (economia “da casa”).
Tra le risposte alla crisi della produttività delle aziende legate all’emergenza c’è lo smart working (lavoro agile) che, ad oggi, più che un privilegio (gli smart worker in Italia sono appena il 4% mentre la media europea è del 9%, con punte del 20% nei paesi del nord Europa e del 35% negli Usa, dati Federmanager) sta diventando una necessità.
Introdotto con la legge 22 maggio 2017, n. 81, lo smart working è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato (compreso quello alle dipendenze delle PP.AA.) stabilita mediante accordo individuale scritto tra datore di lavoro e dipendente, senza vincoli di orario o di luogo di lavoro e con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici. La prestazione si svolge in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale (artt. 18-23, l. n. 81/2017).
Ai tempi del Coronavirus, per attivare il lavoro da remoto si potrà prescindere dall’accordo col lavoratore.
L’emergenza ha infatti introdotto delle importanti semplificazioni (era già successo nell’agosto 2018, a seguito del crollo del Ponte Morandi a Genova): il DPCM dell’8 marzo 2020, riproducendo il contenuto del precedente DPCM dell’1 marzo 2020, prevede che lo smart working possa essere applicato dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato anche in assenza dei citati accordi individuali previsti dalla legge. Gli obblighi di informativa sulla salute e sicurezza sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione disponibile sul sito dell’INAIL.
Ciò sarà consentito per tutta la durata dello stato di emergenza (fino al 31 luglio 2020) e sull’intero territorio nazionale, e non più, quindi, nelle sole zone rosse (art. 2, co. 1, lett. r), DPCM dell’8 marzo 2020).
Sul sito web del Ministero del Lavoro è possibile il caricamento massivo delle comunicazioni di smart working, accedendo tramite SPID o Cliclavoro: la nuova modalità semplificata richiede il salvataggio di un file Excel (formato xlsx), con i dati del datore di lavoro e del lavoratore, indicazione della posizione assicurativa territoriale INAIL e della data di inizio e fine di validità dell’accordo di lavoro agile.
Se prima della pandemia erano 570 mila i lavoratori smart nel nostro Paese, in soli 14 giorni il numero è quasi raddoppiato. Infatti, altri 554.754 lavoratori sono stati messi a lavorare da remoto, ma la cifra è destinata a crescere.
Per far fronte all’emergenza, nelle P.A. lo smart working è divenuto la modalità ordinaria di lavoro. Fanno eccezione i solilavoratori impegnati in “attività strettamente funzionali alla gestione dell’emergenza” e quelli che svolgono funzioni “indifferibili da rendere in presenza” (art. 1, co. 1, n. 6), DPCM dell’11 marzo 2020).
E pensare che -prima dell’emergenza- il lavoro agile negli uffici pubblici era una mera sperimentazione (introdotta nel 2015 per almeno il 10% dei dipendenti, ove lo richiedano) mentre ora è un obbligo presidiato da sanzioni per i dirigenti degli uffici che non si dovessero adeguare (cfr. Circolare del Ministro per la P.A. n. 1/2020 del 4 marzo 2020).
I benefici dello smart working in termini di produttività sono evidenti: la Stanford University (California) aveva già dimostrato nel 2015 -con un esperimento condotto in Cina- che il lavoro da remoto produce un incremento della produttività pari al 13%[1]. In Italia, uno studio dell’Università Bocconi del 2019 ha provato come i lavoratori smart garantiscano una produttività maggiore del 3-4%, oltre a un minor tasso di assenze da lavoro (da 1,2 a 4,8 giorni di assenze in meno all’anno) rispetto ai colleghi non smart[2].
Senza considerare la soddisfazione in termini di benefici per la conciliazione tra lavoro e vita privata.
Certo, non tutte le attività sono gestibili da remoto ma se si considera che sono 8,3 milioni i dipendenti potenzialmente occupabili in modalità agile nel nostro Paese (dati della Fondazione studi dei Consulenti del lavoro), si comprende che lo smart working ha potenzialità enormi.
E, in tempi emergenziali, può non
esserci un piano B.
[1] N. Bloom, J. Liang, J. Roberts, Z.j. Ying, Does working from home work? Evidence frome a chinese experiment, Quarterly Journal of Economics, Marzo 2015.
[2] Progetto europeo E.L.E.N.A. (Experimenting flexible Labour tools for Enterprises by engaging men and women), che fa capo al dipartimento Pari opportunità, presidenza del Consiglio dei ministri, in partnership con il Centro Dondena per le dinamiche sociali e politiche pubbliche dell’Università Bocconi, 2019.